Questo piccolo libro è come una piccola macchina del tempo in grado di farci buttare uno sguardo su un evento del passato di cui non sempre si conoscono poi i dettagli di ciò che è avvenuto dopo.
Su questo blog potete trovare diversi articoli che si riferiscono a libri ambientati durante le Guerre Mondiali, ma poco è stato prodotto sul quanto è avvenuto dopo a coloro che, nel bene e nel male, hanno preso parte attivamente al sistemare la polvere sotto il tappeto che si era accumulata in decenni di politica degenerata e scontenti popolari, il mondo si stava assestando.
Nel 1960 viene arrestato in Argentina Adolf Eichmann, il gerarca nazista responsabile di aver pianificato, strutturato e dunque reso possibile lo sterminio di milioni di ebrei. Dai verbali degli interrogatori a Gerusalemme, dagli atti del processo, dalla storiografia tedesca ed ebraica oltre che dai saggi di Hannah Arendt, Stefano Massini trae questo dialogo di feroce, inaudita potenza. Il testo è un atto unico, un’intervista della stessa Arendt a colui che più di tutti incarna la traduzione della violenza in calcolo, in disegno, in schema effettivo. In un lucidissimo riavvolgere il nastro, Eichmann ricostruisce tutti i passaggi della sua travolgente carriera, dagli albori nella piccola borghesia travolta dalla crisi fino all’ebbrezza del potere, con Hitler e Himmler raccontati come mai prima, fra psicosi e dolori addominali, in un tripudio di scuderie, teatri e salotti. Da una promozione all’altra, in un crescendo di poltrone, prestigio e denaro, si compone lentamente il quadro della Soluzione Finale, qui descritta nel suo aspetto più elementare di immane macchina organizzativa: come si sperimentò il gas?
Quando fu deciso (e comunicato) l’inizio dello sterminio?
Come si gestiva in concreto l’orrore di Auschwitz?
Ed ecco prendere forma, passo dopo passo, una prospettiva spiazzante: Eichmann non è affatto un mostro, bensì un uomo spaventosamente normale, privo di alcun talento se non quello di trarsi d’impaccio, capace di stupire più per la bassezza che per il genio. Incalzato dalle domande della filosofa tedesca, egli si rivela il ritratto squallidissimo dell’arrivismo, della finzione, del più bieco interesse personale, ma niente di più. È mai possibile che l’uomo più temuto da milioni di deportati, il cui solo nome incuteva terrore, fosse un essere così vicino all’uomo medio? Contraddittorio, superficiale, perfino goffo, Eichmann assomiglia a noi più di quanto si possa immaginare. Ma è proprio qui, in fondo, che prende forma il male: nella più comune e insospettabile piccolezza umana.
Tutti coloro che, invece, presero parte attivamente alle atrocità commesse durante la guerra, a tutti coloro che si sono trovati dalla parte dei vinti, ad un certo punto della storia sono stati messi di fronte alle conseguenze che le scelte che avevano compiuto hanno portato.
Questo libro è la testimonianza diretta di una intervista ad uno degli attori più coinvolti nella storia del caduto Terzo Reich, Adolf Eichmann, alla vigilia della sua condanna per crimini di guerra e contro l’umanità. Egli racconta con rassegnata serenità, con naturalezza e senza scomporsi, la sua versione dei fatti riguardo alcune domande che gli vengono poste da Hannah Arendt (cliccaci sopra per sapere qualcosa di questa donna meravigliosa).
Forse è proprio questa serena sincerità a sconvolgere maggiormente il lettore, una fredda e razionale versione dei fatti pragmatica e amorale.
La verità è quella che è, a prescindere da come possa venire interpretata; inutile negarla o tentare di sovrapporla ad altre. Credo sia in questo che Eichmann non riesce: è un uomo, vuole far passare fino all’ultimo le sue azioni, le sue decisioni, come se non avesse avuto scelta di agire diversamente perché, in fondo, allora nessuno pensava che fosse sbagliato. Agiva seguendo gli ordini, faceva quello che riteneva giusto perché così pensava, nascondeva nel conscio del branco le sue remore d’animo.
Le sue parole sono solo il disperato tentativo di ristabilirsi, nella speranza che forse gli venga concesso uno sconto di pena, di un uomo che si è macchiato di alcuni tra i più feroci crimini che hanno segnato l’Europa negli ultimi (non troppi) secoli?
Ed è per non incappare in questo orrendo errore filo-sociologico che mi viene incontro Hannah Arendt, alla quale rubo una frase che mi ha dato tanto e che è entrata a far parte della mia personale filosofia di vita: Nel suo resoconto del processo ad Eichmann (che divenne poi il libro La banalità del male – Eichmann a Gerusalemme, 1963) la Arendt ha sollevato la questione che il male possa non essere radicale: anzi è proprio l’assenza di radici, di memoria, del non ritornare sui propri pensieri e sulle proprie azioni mediante un dialogo con se stessi (dialogo che Arendt definisce due in uno e da cui secondo lei scaturisce e si giustifica l’azione morale) che personaggi spesso banali si trasformino in autentici agenti del male. È questa stessa banalità a rendere, com’è accaduto nella Germania nazista, un popolo acquiescente quando non complice con i più terribili misfatti della storia ed a far sentire l’individuo non responsabile dei propri crimini, senza il benché minimo senso critico. Dove inizia la notte?
Dove ha origine il male come peccato, come notte della ragione, come fine di ogni attributo umano?
Dove ha origine quel momento in cui riusciamo a discernere se le nostre azioni sono o meno criticate dal nostro io morale?
È un testo che consiglio, una lettura breve ma intensissima, che ti sprona a studiare e ad approfondire sia quel periodo storico denso di avvenimenti rapidi e travolgenti, sia quella parte dell’umanità che ci sfugge ma che ci tormenta, quell’angolo della nostra anima che non osiamo curiosare, quella domanda che ti spinge a non voler accettare che il Male, forse, siamo noi.